ELEOUSA magazine
Agosto '17

L'ambiente e la guerra. Un problema sempre più attuale


In un periodo storico come il nostro appare urgente una riflessione sul rapporto tra ambiente e guerra, soprattutto all’indomani della Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, la Cop 21, e dei danni arrecati a Palmira, antica città del II millennio a.C., a seguito della guerra in Siria.
La conferenza ha avuto come presidente il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ed è stata organizzata dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, un trattato ambientale creato dalla Conferenza sull'Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite (Unced). L'obiettivo è stato quello di concludere, per la prima volta in oltre 20 anni di mediazione da parte delle Nazioni Unite, un accordo vincolante e universale sul clima, accettato da tutte le nazioni. Il 12 dicembre i 196 Paesi partecipanti hanno concordato al termine della conferenza e all'unanimità un patto globale, chiamato «Accordo di Parigi», per ridurre le emissioni come parte del metodo per la riduzione dei gas serra. Nel documento, di dodici pagine, i membri hanno concordato di ridurre la loro produzione di ossido di carbonio «il più presto possibile» e di fare del loro meglio per mantenere il riscaldamento globale «ben al di sotto di 2° Celsius» in più rispetto ai livelli pre-industriali. Il ministro degli Esteri francese Fabius ha definito questo piano «ambizioso ed equilibrato» e, secondo il capo del dicastero, una «svolta storica» per l'obiettivo di ridurre il riscaldamento globale. L’accordo è stato poi ratificato da 175 Paesi del mondo.
Intervenendo alla conferenza, il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha detto che gli sforzi della Russia hanno permesso di rallentare di un anno il riscaldamento della Terra: «Abbiamo fatto più di quanto dovevamo fare secondo il protocollo di Kyoto per gli anni 1991-2012. La Russia non solo non ha aumentato le emissioni di gas serra ma, anzi, le ha ridotte notevolmente». Grazie a ciò, «siamo riusciti ad evitare che nell'atmosfera finissero circa 40 miliardi di tonnellate di diossido di carbonio. Per dare un'idea dirò che nel 2012 le emissioni di tutti i Paesi del mondo erano pari a 46 miliardi di tonnellate. Possiamo dire che gli sforzi intrapresi dalla Federazione Russa hanno permesso di rallentare il riscaldamento globale di quasi un anno», - ha rilevato il capo di Stato.
La Russia sta progettando di adottare nel 2016 una strategia di sicurezza ecologica fino al 2025. Lo ha reso noto il Segretario del Consiglio di Sicurezza, Nikolaj Patrushev. «La bozza del documento prevede l'introduzione delle migliori tecnologie esistenti presso gli impianti che inquinano maggiormente l'ambiente. Di conseguenza, stiamo progettando di ridurre in modo significativo l'inquinamento dell'aria... così come il volume dei rifiuti industriali».
Inoltre, al fine di richiamare l'attenzione pubblica sui temi dello sviluppo ambientale, della conservazione della biodiversità e della sicurezza ambientale, Vladimir Putin ha firmato il decreto sullo svolgimento nel 2017 dell’Anno dell’Ambiente nella Federazione Russa, nominando presidente del comitato organizzatore il capo dell’Amministrazione presidenziale, Sergej Ivanon. Nel decreto il capo dello Stato raccomanda inoltre gli organi esecutivi degli 85 soggetti federali, compresa la Crimea, di attuare tutte le misure necessarie per lo svolgimento dell’Anno dell’Ambiente in Russia.
Anche la Repubblica del Kazakistan si è impegnata a generare entro il 2050 il 50 per cento dell'elettricità da fonti energetiche non fossili.
Ogni anno, iI 5 giugno si celebra la Giornata mondiale dell’Ambiente, istituita dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 1972 per ricordare la Conferenza di Stoccolma sull'Ambiente, in cui prese forma il Programma Ambiente dell'Onu. L’evento è una delle principali occasioni per richiamare l'attenzione pubblica e le azioni politiche sulla sostenibilità ambientale.
Il rapporto tra ambiente e guerra, due aspetti profondamente interconnessi, è stato spesso trattato e analizzato in modo distinto e disciplinare. Quasi sempre la guerra è stata analizzata come una questione riguardante strettamente la società umana, incentrando l’attenzione sugli aspetti politici, economici, storici e sociali. Anche gli orrori provocati dalla guerra sono associati quasi esclusivamente alle enormi stragi in termini di vite umane e alla distruzione di intere città. Questa prospettiva nei confronti della guerra è di tipo antropocentrico. I danni enormi della guerra sull’ambiente sono spesso nascosti o non considerati. Questa visione riduzionista si fonda su una immagine della natura di contenitore statico di risorse che l’umanità può utilizzare a piacere.
Le relazioni che intercorrono tra questi due fattori possono essere suddivise principalmente in due gruppi: le risorse naturali come fonte di conflitto e i danni della guerra sull’ambiente.
Per comprendere l’importanza di questa relazione è necessario entrare all’interno dell’ambito della sostenibilità. Infatti la società umana ha raggiunto una tale potenza da estrarre risorse e produrre rifiuti a un ritmo tale che supera le capacità di rigenerazione dei sistemi naturali. In una situazione come questa è strettamente necessario compiere scelte che portino alla diminuzione dei consumi e al mantenimento dell’integrità degli ecosistemi naturali, che svolgono attraverso cicli estremamente complessi e quasi completamente sconosciuti tutti i servizi che sostengono l’attività umana.
Fra tutte le scelte possibili la guerra è senza dubbio la meno sostenibile. Infatti questa comporta un enorme utilizzo di risorse: energia, investimenti, materie prime... utilizzato per produrre ordigni bellici che a loro volta producono dei danni enormi sull’ambiente e sulle sue risorse. Inoltre la nostra ignoranza degli equilibri presenti negli ecosistemi e la loro complessità rende molto difficile la previsione dei danni ambientali relativi a molti inquinanti che vengono rilasciati in natura durante i conflitti. Nei sistemi complessi l’enorme quantità di interconnessioni e feedback comporta che gli effetti non sono proporzionali alle cause.
Per avere una visione più ampia del rapporto tra la guerra e l’ambiente è necessario prima di tutto riflettere sulle cause che sono alla base dei conflitti e quindi mettere in relazione la guerra con la politica e l’economia. La guerra è un atto politico che deriva da una volontà ben precisa che comporta l’investimento in spese militari, la formazione di un esercito addestrato e la progettazione di azioni militari. Le cause dei conflitti possono essere molteplici ma molto spesso alla base di tutto ci sono delle ragioni di tipo economico. Questo è ragionevole se si pensa che lo sviluppo di un Paese oggi è valutato quasi esclusivamente sulla base della sua crescita economica, che a livello mondiale è misurato attraverso il Pil (Prodotto interno lordo). Questo ci porta a riflettere su un'altra relazione, quella esistente tra la guerra e l’economia. Da un punto di vista strettamente economico la guerra ha spesso un effetto positivo sul Pil di una nazione. Infatti, durante la guerra lo Stato investe moltissimo nell’industria bellica e in tutte quelle attività correlate, come per esempio la produzione di carburanti. Inoltre i danni prodotti dalla guerra, per esempio sulle infrastrutture pubbliche e private, si trasformano alla fine del conflitto in una fonte di lavoro per molte aziende e anche questo si traduce in un aumento del Pil. Quindi, secondo questo sistema economico l’enorme spreco di risorse energetiche e di materie prime e i danni devastanti prodotti sull’ambiente sono conteggiate come delle voci positive nel calcolo del Pil. Ovviamente da un punto di vista logico tutti questi fattori dovrebbero avere un effetto negativo. Infatti è nata all’interno del campo dell’economia una disciplina come la contabilità ambientale che ha proprio lo scopo di conteggiare lo spreco di risorse e i danni ambientali e di integrarli all’interno dei costi economici. Questa visione esclusivamente economica del conflitto è assolutamente riduzionista e non tiene conto di molti aspetti fondamentali che poi in realtà interferiscono con l’economia, per esempio la perdita di risorse umane, spesso giovani, l’assistenza sanitaria per l’enorme numero di feriti e il sostentamento di campi profughi che a lungo termine possono essere ancora più rilevanti nello sviluppo sociale ed economico di un Paese. Secondo il Wwf la natura ci «regala» 145.000 miliardi di dollari all'anno in beni e servizi gratuiti, una cifra che supera il Pil mondiale. Quindi è necessario uno studio di economia ecologica sul valore dei servizi ecosistemici.
Negli ultimi 50 anni gli Stati Uniti hanno investito in modo regolare e sempre crescente per mantenere il Medio Oriente all’interno della loro orbita geopolitica per garantirsi l’approvvigionamento di quantitativi sempre maggiori di petrolio a basso costo. A tal fine gli Usa hanno portato avanti una serie di attività che comprendono: il rovesciamento di governi ostili a favore di regimi amici, il trasferimento di enormi quantitativi di armi agli alleati, l’acquisizione di un sempre maggior numero di basi militari e interventi diretti armati nella regione. Perché il Medio Oriente? Perché questa area e in particolare il Golfo persico producono circa il 30% del petrolio mondiale e ne posseggono il 65% delle riserve. Quindi è l’unica regione in grado di sostenere (per relativamente poco tempo) il crescente bisogno di petrolio degli Stati Uniti. L’Arabia Saudita è il maggiore produttore e detiene un quarto delle riserve mondiali (262 miliardi di barili) mentre l’Iraq è il secondo Paese con le maggiori riserve (112 miliardi di barili) e visto che diverse zone non sono state ancora esplorate questo dato potrebbe aumentare ulteriormente. Ovviamente tutte le attività militari sono sempre state giustificate attraverso scopi umanitari come protezione dei diritti umani, della democrazia o scopi legati alla sicurezza collettiva, come la lotta al terrorismo o la guerra preventiva.
Tutte le azioni militari servono a sostenere il continuo sfruttamento del petrolio, indispensabile nei Paesi occidentali, provocando danni enormi alla salute umana, alla società civile, all’ambiente e alle stesse riserve di petrolio, per esempio la distruzione di pozzi e di petroliere. Questo continuo aumento di utilizzo dei combustibili fossili è il principale responsabile della crisi climatica globale che viene quindi sostenuta dalla guerra. Con tutte le armi a disposizione, comprese quelle nucleari.
L’incontro tra i Paesi nucleari e non nucleari del 1999 si concluse con il Trattato di non proliferazione, in cui i primi si impegnavano ad eliminare le armi nucleari. Negli ultimi anni le cose sono andate diversamente, infatti non solo le armi nucleari non sono sparite ma anzi in molti Paesi si ricerca per acquisirne o svilupparne di nuove. I due Paesi maggiori possessori di testate nucleari, gli Usa e la Russia, hanno firmato il Nuovo Start a Praga, l'8 aprile 2010, che è entrato in vigore il 5 febbraio 2011. Il documento dovrebbe durare almeno fino al 2021.
Il problema, secondo il quotidiano nordcoreano «Nodong Sinmum» è che gli Usa «insistendo nuovamente sull'idea di un mondo senza armi nucleari, cercano in questo modo di nascondere la loro vera natura atomica». Basta vedere cosa sta succedendo in Europa con il recente e distruttivo dispiegamento unilaterale e illimitato dello scudo missilistico Usa, che è una minaccia per la Russia, per la sicurezza internazionale e per la stabilità strategica.
La conferenza di revisione quinquennale del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), dal 27 aprile al 22 maggio 2015, si è conclusa senza che venisse approvato un documento finale. La conferenza non ha trovato accordo a causa di divergenze sulla preparazione di una conferenza sulla creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa in Medio Oriente.
Il Segretario generale dell’Onu Ban Ki moon ha espresso disappunto per l’esito della revisione. In particolare ha stigmatizzato il fatto che gli Stati che fanno parte del trattato «non sono riusciti a restringere le differenze sul futuro del disarmo nucleare o ad arrivare a una nuova visione collettiva su come raggiungere l’obiettivo di un Medio Oriente privo di armi atomiche o di armi di distruzione di massa».
Un aspetto molto grave oggi riguarda l'uso delle armi chimiche e batteriologiche con il pericolo del cosiddetto «terrorismo chimico».
La Convenzione sulle Armi Chimiche, firmata nel 1997 da 120 Paesi, doveva prevedere l’eliminazione di tali armi entro il 2012. Molti Paesi stanno rallentando il processo di tale disarmo. La Convenzione sulle Armi Batteriologiche del 1973, ratificata da 143 Paesi, non prevede nessuna forma di controllo.
Le armi chimiche rappresentano sicuramente uno degli esempi più chiari degli enormi danni che la guerra produce sull’ambiente e sulla salute umana. Per le loro caratteristiche continuano a produrre danni anche dopo molti anni la fine del conflitto. Un caso particolarmente grave di danni alla salute umana e all’ambiente è rappresentato dall’uranio impoverito. Questo viene utilizzato per migliorare il potere penetrante dei proiettili e dei missili. L’uranio impoverito è un prodotto di scarto del processo di arricchimento dell’uranio che avviene nelle centrali nucleari e nella produzione di bombe atomiche. Viene utilizzato poiché è un materiale estremamente denso che quindi penetra anche corazze molto massicce. Un’altra caratteristica utile di questi proiettili è quella di incendiarsi spontaneamente quando entrano in contatto con il bersaglio, rilasciando particelle sottili nell’ambiente. Queste sono molto tossiche per l’ambiente, sia chimicamente in quanto metalli pesanti, sia a causa delle radiazioni alfa che emettono. Infatti, le polveri sottili penetrano facilmente nei polmoni provocando tumori e altre malattie. Per esempio, il rapporto del Los Alamos Laboratories afferma che i «poligoni di prova delle bombe all’uranio impoverito di Aberdeen e Yuma non possono essere oggetto di insediamento umano senza preventiva decontaminazione». Inoltre, le particelle di uranio impoverite possono essere trasportate dal vento aumentando di molto l’areale del danno. Durante la Guerra del Golfo si stima che siano state rilasciate nell’ambiente dalle 300 alle 800 tonnellate di uranio impoverito in Iraq, Kuwait e Arabia Saudita. Quindi, l’uranio impoverito oltre a creare danni diretti alla salute umana, che comportano anche costi per le cure mediche, grazie al trasporto del vento si depositano nelle falde e nei campi provocando danni diretti sull’ambiente. In Kosovo, durante la guerra, si stima che siano stati utilizzati 500 mila proiettili all’uranio. Tra questi, ci possono essere proiettili piccoli che contengono 300-330 g, fino ai missili Tomahawk, in cui ne sono presenti 400-500 kg. Di questa quantità se ne libera mediamente in polvere il 10-30%. Questa quantità enorme si è riversata sui campi facendo superare in molte zone la soglia critica e ha prodotto decine di migliaia di tumori alle vie respiratorie.
Nel 1997 è stata creata l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), con sede all'Aja, che ha il compito di far applicare la Convenzione di Parigi del 1993 sul bando delle armi chimiche. La Russia mantiene in toto gli impegni assunti nell’ambito della convenzione, tanto che «grazie all'importante ruolo giocato dalla Federazione Russa in questo campo abbiamo potuto raggiungere risultati concorrenziali, che si sono materializzati nel conferimento del premio Nobel», ha detto il direttore generale del Segretariato tecnico dell’Opac, Ahmet Üzümcü, in un incontro con il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.
Allo stesso tempo il direttore dell'Opac ha espresso preoccupazione sul probabile accesso degli uomini del Daesh alla tecnologia e al know-how per la produzione di armi chimiche, convergendo in pieno con le stime russe su ciò che sta accadendo in Siria e Iraq, dove sta guadagnando forza il terrorismo chimico.
La guerra produce una serie di situazioni che continuano a provocare danni ben oltre la fine del conflitto, in alcuni casi per oltre 50 anni. Queste sono molto varie e comprendono per esempio la ricostruzione, il sostegno dei feriti, le mine, i profughi e il degrado dei residui bellici. Il passaggio dalla guerra di trincea alla guerra basata sui bombardamenti e le armi di distruzione di massa ha prodotto un continuo aumento del danno inferto alle infrastrutture, che comprendono case, ponti, strade, ma anche industrie di vario genere e pozzi di petrolio. Ovviamente, tutte queste strutture devono essere ricostruite e per farlo necessitano di grandi risorse energetiche e di materie prime.
Un altro aspetto molto dispendioso riguarda il sostentamento dei soldati feriti in guerra. Infatti la guerra produce molti menomati che necessitano di sostentamento logistico e medico. La guerra provoca molte malattie fisiche e mentali, come accadde durante la prima Guerra del Golfo, in cui i soldati americani soffrivano della cosiddetta sindrome del Golfo a causa della continua vicinanza con sostanze tossiche.
Le mine antiuomo rappresentano un esempio molto chiaro dei danni che si ripercuotono sull’ambiente dopo il termine del conflitto. Esse sono delle armi molto semplici da costruire, che vengono predisposte sul suolo ed esplodono in risposta a un’azione specifica. Possono essere disposte manualmente o disseminate in grande quantità utilizzando elicotteri. Ne esistono di vari tipi, alcune esplodono successivamente a una pressione, altre possono essere collegate a un filo che se mosso le attiva e altre ancora esplodono in seguito a manipolazione. Sono progettate per ferire le persone con lo scopo di creare un esercito di disabili e amputati. All’inizio venivano utilizzate a scopo difensivo per difendere le basi, oggi sono utilizzate come armi di distruzione di massa che agiscono lentamente e a basso costo. Infatti vengono disseminate in grandi quantità nel territorio avversario e vi restano anche dopo la fine del conflitto. Spesso le mine sono fatte specificamente per colpire i bambini o con forme particolari per attrarli o regolando le mine a pressione su un peso compreso tra 30 e i 50 chilogrammi. Colpire i bambini raggiunge diversi scopi: elimina un futuro soldato, elimina un futuro elemento produttivo della società, si obbliga il nemico a provvedere al sostentamento economico e sanitario e colpisce la morale dei nemici.
Le mine rimangono attive per più di 50 anni continuando quindi a creare feriti molto dopo la fine del conflitto. Questa situazione può portare molte altre conseguenze negative. In primo luogo intere porzioni di territorio sono abbandonati, come campi agricoli produttivi economicamente, strade che devono essere spostate, e in generale zone abitate contribuendo in modo sostanziale alla formazione di profughi. Le mine producono danni direttamente all’ambiente, sia in termine di vittime nella fauna, sia all’acqua, in quanto, degradandosi, le mine possono rilasciare sostanze inquinanti.
Un altro aspetto che complica la situazione è l’enorme dispendio di risorse necessarie per sminare. Per questa operazione serve personale ben addestrato con strumentazioni adeguate, come metal detector. Nonostante si stiano studiando nuovi dispositivi che faciliteranno l’operazione per ora l’unico metodo è quello di entrare in un campo minato, analizzare metro per metro tutta la superficie rimuovendo le mine, se possibile, o facendole esplodere nel luogo dove sono state trovate utilizzando ulteriore esplosivo. Per dare qualche cifra, il costo di una mina varia dai 3 ai 30 dollari mentre quello per sminarla dai 300 ai 1000 dollari.
A livello mondiale non si può dire con precisione quale sia il numero totale di mine presenti nel mondo. L’unico dato certo è che ogni 22 minuti nel mondo una persona diventa vittima di una mina. Secondo l’Onu, ci sono più di 1.110.000,00 di mine distribuite in non meno di 68 Paesi. Per produrre una protesi per tutti i 250.000 amputati da mine registrati sarebbero necessari 7.500.000,00 di dollari. Per disattivare tutte le mine presenti sul pianeta servirebbero 33 miliardi di dollari e con il ritmo attuale di sminamento sarebbero necessari più di 1100 anni. Tra i Paesi più colpiti, ci sono la Cambogia e l’Afghanistan che hanno circa il 35% del loro territorio inutilizzabile a causa delle mine.
Nel 1997 è stato firmato da 117 Paesi il trattato di Ottawa per l’eliminazione delle mine antiuomo che prevede per ogni Paese l’eliminazione degli stock in 4 anni e l’impegno a sminare i propri territori. Altri 23 Paesi hanno firmato il trattato ma tardano ad applicarlo, mentre 53 non hanno ancora firmato, tra cui gli Usa, la Cina e l'India, tra i maggiori produttori al mondo, nonostante la revisione del trattato alla terza Conferenza di Maputo nel 2014.
Uno degli aspetti della guerra che produce effetti dopo il conflitto è quello di costringere intere popolazioni ad abbandonare il luogo in cui vivono. Questa situazione genera un enorme spreco di risorse, poiché invece di vivere delle loro attività produttive, utilizzando il loro ambiente, queste persone sono costrette a farsi mantenere da beni prodotti in altri Paesi e trasportati nei campi. Per avere un’idea dell’entità del problema basti pensare che nel mondo esistono più di 59 milioni di rifugiati.
Un'accelerazione in tal senso si è avuta nei primi mesi del 2011, quando è scoppiata la guerra in Siria, diventata la principale causa di migrazione forzata a livello mondiale. Se tutti questi rifugiati formassero una nazione, sarebbe la 24a al mondo per numero di abitanti!
Ovviamente nei campi profughi si creano molte situazioni complicate come la militarizzazione e politicizzazione dei campi da parte di gruppi armati o fazioni ribelli,
gli attacchi armati da parte del Paese di origine, 
la coscrizione forzata per giovani e adulti,
le violenze e lo sfruttamento delle donne, la detenzione arbitraria dei rifugiati che vivono in aree urbane, l'ostacolo all'assistenza umanitaria. In alcuni casi i profughi sono costretti a organizzarsi in altro modo, formando bande armate.
Un'altro problema legato alla guerra, che produce danni ambientali anche molto tempo dopo la fine del conflitto, è il degrado degli ordigni bellici. Infatti, alla fine di ogni guerra, rimangono nell’ambiente molti residui e resti di armi, munizioni, missili non esplosi, resti di mezzi di trasporto, ecc. Alcuni di questi possono contenere sostanze inquinanti che attraverso il degrado legato agli agenti atmosferici possono rilasciarsi nell’ambiente, soprattutto attraverso l’acqua, traducendosi in inquinamento chimico per la falda e per i corsi d’acqua. Conoscendo l’odierna importanza dell’acqua e la sua scarsità in relazione all’eccessivo utilizzo umano, ci si rende conto dell’importanza di questo fattore. Fortunatamente, sulla terraferma, la maggior parte dei residui sono abbastanza facili da individuare e da rimuovere. Il vero problema riguarda l’ambiente marino in cui è molto più difficile individuare gli ordigni bellici e soprattutto intervenire. Inoltre, in mare le sostanze inquinanti si diffondono molto più facilmente che in terraferma ampliando l’areale del danno. Questa situazione sta provocando soprattutto danni all’ecosistema marino, come nel caso del Mare Adriatico; infatti alcuni pesci mostrano segni di esalazioni da iprite e mostrano livelli di tossicità di diversi inquinanti come l’arsenico in quantità molto maggiore rispetto al controllo positivo. Ovviamente non si conoscono ancora gli effetti di questa situazione a livello ecologico ma sicuramente comportano una perdita di biodiversità in quanto privilegiano solo alcune specie più resistenti. La Convenzione sulle Armi Chimiche di Parigi prevede che la rimozione delle armi scaricate in mare prima del 5 gen-naio 1985 è a discrezione dei singoli Paesi.
La storia del Novecento con i due conflitti mondiali e tutte le altre guerre che si sono susseguite ha creato una forte consapevolezza nelle persone delle catastrofi e degli orrori della guerra e ha prodotto un forte anelito di pace. Nonostante questo, nel mondo oggi sono presenti moltissimi conflitti sia civili che fra Stati, come sta accadendo in Medio Oriente e in Nord Africa. Questa situazione è resa possibile dal ruolo fondamentale dell’informazione sia nel nascondere sia nel giustificare i conflitti. I cosiddetti conflitti dimenticati. Infatti i mass media danno pochissima importanza ai conflitti armati in Paesi che in apparenza non sono collegati a noi direttamente. Le informazioni su tutte le guerre in Africa, Sud America e Indonesia per le risorse, ad esempio, sono quasi nulle e i pochi video e notizie si perdono all’interno della mole di informazioni inutili che ci bombardano ogni giorno volte ad intrattenere le persone e alienarle dalla situazione mondiale. Questo provoca una scarsa consapevolezza dei conflitti presenti, delle sofferenze che producono e delle connessioni di questi con il nostro stile di vita, dando origine alla «cultura dell'impunità».
Un altro ruolo enorme dell’informazione consiste nel giustificare e rendere accettabili i conflitti che ci riguardano direttamente. Questo avviene generalmente attraverso la demonizzazione dell’avversario, come nel caso della Russia, dell'Iran, oppure attraverso i pretesti umanitari, la provocazione, e facendo sembrare il conflitto come necessario. Ovviamente perché questa strategia sia efficiente è necessario il controllo di tutti i mezzi di informazione, che si realizza attraverso la formazione di una versione ufficiale che viene trasmessa dalle grandi agenzie e dai grandi network, rendendo impossibile che altre informazioni filtrino.
Delimitare un conflitto e i danni che produce è molto difficile poiché entrano in gioco moltissimi elementi strettamente collegati fra loro. Uno strumento molto efficace è quello di riflettere sulle scale temporali e spaziali. Quando si pensa a una guerra ci si riferisce al momento in cui questa esplode, escludendo tutto il periodo di preparazione, che è molto più lungo e produce spreco di energie e risorse.
L'altro aspetto è la scala spaziale. Spesso le armi che vengono utilizzate provengono da zone molto più distanti, e le risorse per cui i conflitti sono fatti spesso servono ad altre nazioni. Per esempio, molti conflitti presenti in Africa sono portati avanti con le armi vendute dai Paesi occidentali, come Usa, Italia e...



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