09/08/2018
Siria - Milioni di profughi tornano in Patria


Damasco, 9 agosto 2018 - La fine di una guerra è anche quando i profughi se ne tornano a casa. La cosa più importante tra quelle che si stanno verificando in Siria e nella regione circostante riguarda il ritorno in Patria in un futuro molto prossimo di 1,5 milioni di siriani, oltre agli 1,5 milioni già rientrati nel 2015.
Ci si può rendere conto di quanto grande sia questo fenomeno se si considera che un numero analogo di profughi (non solo siriani) solo nel 2015 si è riversato in Europa e questo ha causato nel continente un vero e proprio terremoto politico che ad oggi non si è ancora placato.
La Russia, che ha avuto un ruolo chiave nella svolta militare del conflitto siriano, si ritrova ora con il compito unico di gestire la situazione post-bellica siriana e dell'intera regione. Questo può conferirle (e già lo fa) sia molti vantaggi sia un gran numero di nuovi compiti.
Il cambiamento sostanziale del ruolo della Russia (da vincitrice del conflitto a incaricata della gestione della situazione post-bellica) è stato evidenziato alla fine della scorsa settimana in un Paese molto lontano dalla regione del Medio Oriente, cioè Singapore. Il ministro russo degli Esteri Sergey Lavrov ha incontrato a Singapore diplomatici dei 10 Paesi dell'Asean e loro partner esteri.
In tale occasione Lavrov ha anche incontrato i colleghi turchi e iraniani e ha discusso con loro della questione siriana.
I diplomatici non furono sorpresi: la Russia, la Turchia e l'Iran si incontrano spesso e a diversi livelli perché l'intera diplomazia relativa alla Siria è nelle mani di queste tre nazioni.
Il fulcro della questione è stato esplicitato nelle risposte di Lavrov alle domande dei media russi sempre a Singapore. Il centro della questione sarebbe il seguente: «noi» stiamo risolvendo la questione al momento più importante, quella dei profughi; «loro» (cioè gli Usa e i loro alleati) non aiutano nemmeno.
E così, 10.000 siriani in Libano, 200.000 in Giordania, alcune centinaia di migliaia in Turchia hanno ufficialmente dichiarato di essere pronti a tornare a casa già domani.
Quando hanno lasciato la Siria, vi erano diversi problemi: procurarsi il cibo, ricostruire dalle macerie… Adesso si ripresenteranno gli stessi problemi. Ricordiamo che in tutto i siriani che hanno abbandonato il loro Paese per salvarsi dalla guerra sono stati più di 6 milioni.
La Russia a tal proposito ha proposto ai partner delle Nazioni Unite di creare una lista dei profughi, cioè di cominciare a mettere ordine in tutto quel caos. Ad esempio, cominciando con una lista delle persone interessate che riporti se la data persona desideri rientrare in Patria subito, in futuro o se preferisce rimanere dov'è. Alle Nazioni Unite questa proposta è piaciuta.

Qui tocchiamo un tema importante: sin dall'inizio l'esercito russo non si è occupato solamente di affari militari in Siria: ad esempio, ha condotto trattative tra i singoli villaggi per accordarsi sulla tregua, ha organizzato un'operazione umanitaria importante grazie alla quale la liberazione di Aleppo è assurta ad esempio della minimizzazione delle perdite. Ora le persone che i soldati russi hanno portato via da Aleppo possono ritornare a casa. Ma vi sono anche situazioni opposte: chiedete a quelli che abitavano nella città irachena di Mosul, praticamente rasa al suolo dagli americani.
O la recente storia della comparsa di volontari russi sulle Alture del Golan sull'attuale confine tra Israele e Siria: il problema risiedeva nel fatto che Israele si spaventò vedendo soldati iraniani su quel confine e cominciò a bombardare la Siria.
Ora il problema è risolto.
La Russia sta coordinando un'enorme operazione internazionale, mentre gli Usa e i loro alleati, secondo Lavrov, «sono oltremodo restii negli aiuti alla ricostruzione delle infrastrutture indispensabili per il ritorno delle persone in Patria».
La settimana scorsa c'è stato uno scandalo: Valery Gerasimov, funzionario del Quartier generale russo, ha inviato a luglio una lettera confidenziale sulle operazioni in Siria al suo collega americano Joseph Dunford. Risultato? La lettera, arrivata negli Usa, «è capitata» nelle mani dell'agenzia di stampa Reuters.
Che succede? Gli americani, per i quali lo scopo di queste operazioni in Siria era di sostituire «il sanguinario dittatore Bashar el-Assad» con qualcuno filo-occidentale, sono finiti in una situazione scomoda. Unirsi ai vincitori (Russia! Turchia!! Iran!!!) e contribuire agli sforzi post-bellici: ma che, scherzate? O non fare niente fingendo di non averne il potere. Alla fine, gli Usa non stanno facendo niente ma conservano i propri militari nella Siria orientale e non permettono alle forze governative di accedere a quella zona.
Come oggi sappiamo bene, le Americhe in realtà sono due e si odiano l'un l'altra. Metaforicamente parlando, si tratta dell'America democratica e di quella repubblicana. Di recente sono uscite due pubblicazioni che descrivono perfettamente i diversi approcci delle «due Americhe» alla Siria.
Il primo approccio, descritto da Usa Today, è repubblicano e, in sostanza, è chiaro sin dal titolo: «Anche se Putin e la Russia ripristineranno la situazione in Siria, i contribuenti americani non dovranno pagare per questo». L'autore parte da un presupposto ovvio: la guerra è stata persa. O meglio è stata vinta dalla Siria e dai suoi amici. Dunque, non rimane che infangare Mosca, anche se il vincitore sta riportando in Patria questi 6 milioni e rotti di profughi e si sobbarca le spese dell'operazione. Ogni tentativo di persuadere qualcuno a contribuire alla ricostruzione post-bellica deve essere fermato.
In effetti, l'hanno già fatto. Ed è di questo che ha parlato Lavrov a Singapore. In verità, alcuni alleati come la Francia e il Giappone non partecipano a questo boicottaggio.
Il secondo punto di vista è quello democratico ed è quello più interessante. Gli autori della pubblicazione comparsa su Foreign Affairs dichiarano: ma chi ha detto che la guerra si è conclusa? Sarà solo peggio perché Assad è un dittatore così «sanguinario» che continueranno le tensioni fra lui e gli oppositori interni, cioè i jihadisti vinti di ogni specie. Quindi è necessario «ridare agli insorti la possibilità di combattere». Per fare questo è necessaria la volontà politica e non la paralisi attuale. Cioè la pace oggi è la guerra. E i leggendari «jihadisti sconfitti» riarmati rappresenterebbero la pace.
Qui c'è un equivoco. Se il popolo siriano odiasse un «dittatore sanguinario», se fosse scappato non dalla guerra, ma da Assad, allora questi dovrebbe temere il ritorno dei suoi connazionali e anzi impedirlo in qualche modo. Al contrario, Assad non sta facendo niente di tutto ciò.
Tornando all'America, vi chiederete quale delle due politiche contrapposte sopra menzionate sta seguendo l'amministrazione Usa?
Risposta: entrambe. Già abbiamo parlato della mancata partecipazione statunitense agli sforzi per la ricostruzione siriana. Ma la presenza di soldati americani ad est del Paese è un fatto innegabile e si spiega solamente con la speranza di conservare un caposaldo dei combattenti filo-americani.
Ma seguire contemporaneamente due politiche contrapposte è al momento la norma per le istituzioni americane dove siedono allo stesso tavolo forze che si odiano e si arrecano danno a vicenda.

(Fonte: it.sputniknews.com)


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Profughi siriani. © REUTERS / Marko Djurica. Da: it.sputniknews.com.
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